Vi siete innamorati con “Che tu sia per me il coltello”? Avete sognato con “Vedi alla voce: amore”? Allora assolutamente non potete perdervi “Applausi a scena vuota” l’ultima fatica di David Grossman. Il palcoscenico è deserto. Il grido echeggia da dietro le quinte. Il pubblico in sala a poco a poco si zittisce. Un uomo con gli occhiali, di bassa statura e di corporatura esile, piomba sul palco da una porta laterale. Signore e signori un bell’applauso per Dova’le G.! C’è qualcosa di strano nella serata. Tra le sedie c’è un intruso, trascinato fino a quella cittadina poco raccomandabile da una telefonata inattesa: è l’onorevole giudice Avishai Lazar, amico d’infanzia di Dova’le. Deve giudicare la vita intera di quello che, lo ricorda solo ora, era un ragazzino macilento e incredibilmente vivace, con l’abitudine stramba di camminare sulle mani. Dova’le sul palco si mette a nudo, e imprigiona la sala nella terribile tentazione di sbirciare nell’inferno di qualcun altro. Nella storia di un bambino che camminava a testa in giù e da quella posizione riusciva ad affrontare il mondo.
Un ragazzino che al campeggio paramilitare viene raggiunto dalla notizia della morte di un genitore e deve partire per arrivare in tempo al funerale. Ma chi è morto? Nessuno ha avuto il coraggio di dirglielo, o forse lui non ha compreso. Il giovane Dova’le ha un viaggio intero nel deserto per torturarsi con l’angoscia di un calcolo oscuro che gli avvelena la testa. Mio padre o mia madre? Ora eccolo, quel ragazzino, ancora impigliato nell’estremo tentativo di venire a capo di quella giornata lontana, ancora incapace di camminare dritto. Una storia intricata, un mistero, una storia di dubbi e di solitudine, scritta con le migliori parole che si potessero trovare, quelle di Grossman. Servendosi dei mezzi espressivi tipici del cabaret, l’autore mette al centro della scena un singolare personaggio, Dova’le, che con la sua arguzia si rivolge direttamente al pubblico, a poca distanza da lui.
Il monologo del protagonista si alterna, nel corso della narrazione, alle osservazioni e ai ricordi del giudice Avishai Lazar, suo amico d’infanzia, che ha accettato con molte perplessità di assistere allo spettacolo. Ciò che appare immediatamente evidente è la volontà dell’attore di porre il suo pubblico di fronte alla realtà spogliata di ogni falsa apparenza. Prima di addentrarsi nel racconto della sua vita egli si rivolge infatti a singoli individui in sala, senza risparmiare loro osservazioni dure e talvolta offensive. Appare qui subito evidente l’eredità shakespeariana del personaggio del clown e della sua funzione di denuncia. Dova’le, infatti si presenta subito come un buffone al centro della scena. Con l’intento di alleggerire la rappresentazione, egli alterna al racconto drammatico vere e proprie barzellette, più gradite al pubblico.