Un giovane procuratore di banca, Josef K, viene svegliato nella sua abitazione e dichiarato in arresto. Può continuare il corso della sua vita normale, ma c’è un processo in atto contro di lui. Forte della sua innocenza K segue i due funzionari della polizia.
Il seguito mostrerà i sui inutili tentativi per avere un diretto contatto con il tribunale, comprendere di cosa lo si accusi e tentare di difendersi.
L’incessante riferimento ad un delitto non chiarito, probabilmente non compiuto, rendono la narrazione asfissiante.
Il minuzioso realismo, la dedizione per i più piccoli particolari è votata a dilatare la claustrofobia che solo una tragedia inspiegabile spalanca.
Le dimensioni dei luoghi dell’azione sono tutte volutamente anguste e, in ogni caso, soffocanti.
Il tribunale ha sede nelle soffitte di un malandato edificio, gli impiegati rischiano di urtare la testa al soffitto; l’avvocato riceve K in un sordido appartamento, dal proprio letto; la galleria dei personaggi che si incontrano è disseminata da figure marginali con i quali non si apre alcuna prospettiva di incontro e che accumulano promesse di interventi immancabilmente tradite.
Le cognizioni a cui Kafka dà espressione sono l’eredità comune della mistica di tutti i tempi, ma per la prima volta non vengono espresse in una lingua soggettiva, in quella della causalità o della convenzionalità di certe scuole esoteriche.
Kafka crea una realtà parallela nella quale questi problemi si manifestano, si incarnano, trovano un’adeguata corporeità che lascia emergere la struttura del problema.
Solo quella: un’aura, un’atmosfera. Nessuna soluzione o redenzione.
Solo il brivido della vertigine tra umano ed extraumano.
Adoratore dell’ordine divino, Kafka, lo ritrae in una deformazione caricaturale. La misura della sua sublimità diviene quella della sua negazione.
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