Toni Morrison, scrittrice afroamericana raffinata e coltissima trova un articolo, mentre sta raccogliendo documenti e testimonianze per la sua antologia, “ The Black Book”.
L’articolo è datato 1855 e diventerà un romanzo vincitore del premio Pulitzer: Amatissima.
Un libro sulla schiavitù crudissimo eppure intriso d’amore, del suo mistero e dei suoi diritti.
Sincero dolente e caldo come un blues. Voce che canta la storia di una donna, di un popolo, mille volti, mille paesaggi, mille storie in un’unica ellittica voce narrante.
Leggerlo rovescia le situazioni trasformandole in verità.
“Più fa male meglio è. Se non fa male non può guarire” Cosa? La memoria.
Una schiava, Sethe, riesce a fuggire, ma quando si rende conto che sta per essere nuovamente catturata uccide la figlioletta di due anni, per salvarla dal suo destino.
Vent’anni dopo una ragazza appare dalle acque di un fiume e sconvolge la vita di Sethe e della figlia minore, Denver.
E’ il fantasma di Amatissima che rientra nella vita della madre a reclamare in carne ed ossa, l’amore che le è stato negato.
Splendido autoinganno: Sethe si è liberata senza riuscire a divenire padrona di se stessa.
Con la straordinaria capacità di coniugare riso e pianto, amore e morte, l’impulso epico della narrazione si tinge di eventi magici. Schiavitù come metafora delle relazioni e del possesso.
“Non era una storia da tramandare. Così la dimenticarono. Come si fa con un sogno spiacevole durante un sonno penoso… Solo atmosfera. Di sicuro non si sente reclamare a gran voce un bacio”
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