Il 12 Marzo 2004, a tre mesi dalla morte, Tiziano Terzani, dalla sua casa in montagna ad Orsigna, dove si è ritirato, invia al figlio Folco una lettera dall’inchiostro viola. Chiede di essere raggiunto, con una proposta “ e se io te ci sedessimo un’ora al giorno e tu mi facessi le domande che hai sempre voluto farmi…?”
Unico testimone l’albero sotto il quale padre e figlio quotidianamente si incontreranno e un registratore acceso ad imprimere i racconti di cento vite in una.
Storia personale e mondiale si intrecciano.
I ricordi di una vita intensissima: il percorso che dalla povertà dell’infanzia fiorentina lo ha portato ad essere uno dei più stimati giornalisti degli ultimi 50 anni, e poi l’amore e la delusione per il comunismo cinese, le fumerie d’oppio cambogiane, l’orrore della guerra del Vietnam.
Il segreto del viaggio che l’ha portato, da corrispondente di guerra a divenire uomo di pace.
La depressione indotta dal vivere in un mondo moderno predatorio, in Giappone, “l’Asia fuori dal sottosviluppo”, che lasciava scorgere un futuro senza libertà. Depressione, però, vissuta come l’occasione ( così come, in maniera più radicale, sarà vissuto il cancro) di andare incontro a un mondo nuovo, a una certa relazione con l’assoluto, al riparo dalle dicotomie della cultura occidentale.
Libro intriso di sufismo, di pensiero greco ed indiano.
La consapevolezza dell’armonia degli opposti che si rincorrono e si mantengono indivisi e indivisibili, per cui “lasciare il corpo” è solo un cambiamento, un inizio.
“Onestamente, Folco, questo mondo è una meraviglia. Non c’è niente da fare, è una meraviglia. E se riesci a sentirti parte di questa meraviglia- ma non tu, con i tuoi due occhi e i tuoi due piedi; se Tu, con questa essenza di te, senti d’essere parte di questa meraviglia -ma che vuoi di più? Una macchina nuova?”
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