Bernardo Soares è un contabile di Lisbona intento a spiare la vita da un “quarto piano sull’infinito, nella plausibile intimità della sera che sopraggiunge, a una finestra che dà sull’inizio delle stelle”.
Fotografie, pensieri, frammenti sparsi, annotati in forma di diario raccontano una vita senza fatti, solo irregolari impressioni di ciò che accade fuori, attorno, sciolto in inquietudine “non riesco a trovare pace in nessuna posizione.
Anche la cosa più morbida su cui mi adagio ha degli spigoli per la mia anima”.
Così parla quello che Fernando Pessoa ha eletto a suo doppio, “vivere è essere un altro”, un alter ego non completamente altro, solo un semieteronimo “perché pur non essendo la sua personalità la mia, dalla mia non è diversa, ma ne è una semplice mutilazione: sono io senza il raziocinio e l’affettività”.
E’ così che Pessoa in qualche modo riordina, nell’unica opera narrativa, (ma anche confessione, addio, apologia), che ci abbia lasciato, le annotazioni raccolte durante l’intera sua vita letteraria.
La consistenza umana di Soares sembra dissolversi, liquefarsi in una partecipazione lontana, indiretta, alla vita, sembra che sia solo lo sguardo l’unica e vera dimensione vitale e il pensiero l’unica sua peculiare attività.
La vita è intesa nel senso etimologico di ex-sistere essere fuori, al di là di sé, nella dimensione di un “tra” che è innanzitutto giocato tra l’essere e l’idea di essere e in una realtà che prende forma attraverso la scrittura.
Cassa di risonanza della sonora poesia che si cela nello straordinario, o nella più lisa banalità, con i colori di una malinconia accolta e accettata come compagna stabile e duratura.
Un libro meraviglioso, in cui ci è permesso com-patire le amarezze di Soares, ma fermandoci ad un atteggiamento vibratile, anche perché continuamente disorientati in un continuo gioco di specchi degli opposti; d’altronde:” Ho sempre rifiutato di essere compreso. Essere compreso significa prostituirsi.”
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