Elie Wiesel, premio nobel per la pace nell’’86, racconta il suo mondo prima e dopo l’esperienza dei campi di sterminio.Troppo presto orfano, riporta la morte del padre come un tradimento, un’usurpazione perché la morte “lo ha colto inavvertitamente, senza sapere che si trattava di lui”.
Ci viene detto di come ogni giorno si sia allontanato un po’ di più dal dio della sua infanzia “la Torah stessa è diventata orfana…il carnefice arrivò prima del Messia”.Veniamo a sapere dell’ultimo ritorno alla città natale “là dove tutto è cominciato, dove il mondo ha perduto la sua innocenza e Dio la sua maschera”, dove il raggio di morte aveva risparmiato soltanto le pietre.
Un ritorno a fare da bara o da cassa di risonanza a quelli che aveva amato e che se ne sono andati prima che abbia potuto dirglielo.
Troviamo in questo testo, caustico e poetico, la messa in discussione del processo Eichmann a Gerusalemme il quale, rivivendo il passato, avrebbe dovuto porre una domanda non temporale senza lasciar cadere la colpa su un solo uomo, ma anche su chi si tiene a distanza di sicurezza.
La domanda di come possa avere il mondo tremato e l’uomo essere rimasto uguale a se stesso.
Un mondo che si indigna solo quando non ci sono più ebrei da salvare. Eppure Roosvelt non volle bombardare la linea ferroviaria che portava i carri bestiame con carico umano e il papa fece finta di non sapere.
Di qui l’insofferenza per il vaniloquio di chi chiede solo per curiosità o per disfarsi di qualche lacrima di riserva
E’ contro le risposte che ci si è dati e che la scienza si da, che protesta Wiesel: “se voi potete rispondere alle mie domande allora io non ne ho più”
Ultimo atto in difesa dei morti: il silenzio.
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